Il sottotitolaggio “compensativo”

Il sottotitolaggio "compensativo"

Quando ci hanno dato l’incarico di creare i sottotitoli di “Fino alla fine”, il nuovo film di Gabriele Muccino, eravamo emozionatissime, spinte non solo dalla voglia di poter lavorare per un regista così importante, ma anche curiose di scoprire quali nuovi sfide ci si sarebbero parate davanti; in fin dei conti, ogni progetto porta con sé nuovi ostacoli, siano essi di carattere terminologico (“Questo gioco di parole come lo traduco?”) e/o tecnico (“Potete esportare i sottotitoli in questo formato?”, “Non ho una lista dialoghi di riferimento, puoi adattare a partire direttamente dall’audio?”). E poi, onestamente, dopo tre anni ancora non ci è proprio passato l’entusiasmo del poter vedere in anteprima prodotti che usciranno al cinema solo mesi dopo!

Lasciatecelo dire, quel genio di Muccino ci è riuscito di nuovo: ha saputo creare una pellicola che in circa due ore riesce a spaziare dalla storia d’amore al thriller all’action movie, riuscendo così ad accontentare tutti i gusti e a tenere lo spettatore incollato alla poltrona.

Il film racconta la storia di Sophie, una giovane ragazza americana che sta viaggiando per l’Italia insieme alla sorella, appassionata d’arte e di cultura italiana. Una volta arrivate a Palermo, ultima tappa del loro viaggio, Sophie (interpretata da Elena Kampouris) si dimostra però subito restia a passare il tempo che le rimane tra musei e rovine, e decide così di scappare in spiaggia dove, tra le onde del cristallino mar Mediterraneo, conosce Giulio e i suoi amici, dei ragazzi del luogo, che con i loro modi casinisti affascinano immediatamente la ragazza. E così, spinta in parte dall’attrazione che prova per Giulio (interpretato da Saul Nanni) e in parte dalla voglia di ribellione che la attanaglia, Sophie si lascia trascinare in una notte brava che la porterà a compiere azioni per lei inimmaginabili e a mettere alla prova sé stessa. Nel cast, oltre ai due protagonisti, troviamo Lorenzo Richelmy nel ruolo di Komandante;   l’attore è già noto al grande pubblico per aver preso parte a film come “Sotto una buona stella” di Carlo Verdone e a serie televisive come “I liceali”.

Oltre che nella capacità di mischiare più generi, la genialità di Muccino si ritrova in una scelta tecnico-stilistica che ci ha veramente sorpreso e che, a suo modo, ha anche impattato il tipo di sottotitolaggio da noi svolto. Il regista romano ha infatti scelto di girare due versioni del film, che non differiscono né per ordine di scene o finale, ma nella lingua in cui sono recitate. Mi spiego meglio:

           nella versione in italiano, chiaramente pensata per le proiezioni nostrane, troviamo un uso preponderante della lingua italiana, accompagnato da alcune battute in inglese, principalmente recitate da Sophie; per chi si chiede come sia possibile l’uso di tanto italiano in un contesto in cui la protagonista è straniera, non disperate, non si tratta di un buco di trama: c’è una perfetta spiegazione, che però non vi sveleremo! 

           la seconda versione, invece, è stata probabilmente pensata per un pubblico internazionale ed è infatti girata prevalentemente in lingua inglese: in questo caso, sono i ragazzi italiani ad adattare la propria recitazione alla lingua madre della protagonista; anche in questo caso, comunque, si è cercata l’autenticità: l’inglese parlato da Giulio e i suoi amici è abbastanza maccheronico e presenta sbavature e sgrammaticature, rendendo così più credibili i dialoghi.

Il nostro lavoro è consistito quindi nel creare, per ognuna di queste versioni, dei sottotitoli che potremmo definire compensativi, in quanto pensati per facilitare la comprensione da parte del pubblico italiano e internazionale di tutte quelle battute che, come abbiamo detto, sono state recitate in una lingua diversa da quella predominante.

Si è trattato dunque di una lavorazione insolita rispetto ad altri progetti di sottotitolazione a cui ci era capitato di lavorare, ma d’altra parte non ci potevamo aspettare niente di meno da questo film, che anche la stampa definisce “sopra le righe”.

Alla fine, è la storia la cosa più importante…

Alla fine, è la storia
la cosa più importante...

Se non riesco a far parlare i personaggi, allora rinuncio. Se sono io a far parlare tra loro i personaggi allora sono fandonie. Diventa eccitante quando un personaggio dice qualcosa e io penso: “Wow, ha detto proprio così? Non sapevo che avesse una moglie e la pensasse così!”. – Quentin Tarantino

È una pratica sempre più diffusa guardare un film o una serie televisiva e (stra)parlare immediatamente di capolavoro… e, purtroppo, anche chi scrive non è immune da questa pratica. Ma prima di usare paroloni così importanti, forse sarebbe il caso di porre maggiore attenzione su alcuni aspetti tecnici che rendono un episodio o una pellicola “perfetti”.
Partiamo dunque dalla fase di pre-produzione del prodotto: parliamo dunque di sceneggiatura.

Che cos’è una sceneggiatura?       
La sceneggiatura è un testo -originale o basato su altri testi- destinato ad essere girato o filmato, e quindi a passare dalla carta alla pellicola, diventando un film o una trasmissione radiotelevisiva.
Se ci seguite su Instagram (e se ancora non lo fate, cosa state aspettando? Vi aspettiamo!) saprete già dal nostro carosello di inizio agosto che esistono tre modelli di sceneggiatura: all’italiana, all’americana e alla francese. In ognuno di essi, a prescindere dal modello prescelto, ci sono alcuni elementi da inserire di cui non si può fare assolutamente a meno: la divisione in scene, la presenza di dialoghi e le descrizioni di luoghi (chiamate didascalie) e personaggi;

  1. Sceneggiatura all’italiana: il testo è diviso in due parti: a sinistra le didascalie, a destra i dialoghi. Si cambia pagina ad ogni cambio scena.
  2. Sceneggiatura all’americana: è il modello più utilizzato. Didascalie e dialoghi si trovano nella parte centrale del foglio; le didascalie ne occupano tutta la larghezza, mentre i dialoghi vengono disposti al centro, incorporati in un margine ridotto. Nomi di personaggi e intestazioni di scena scritti in maiuscolo. Le intestazioni di scena riportano il luogo in cui si svolge la scena, se questo si trova all’interno o all’esterno e se la scena si svolge di giorno o di notte. Il font in cui scrivere la sceneggiatura è obbligatoriamente il courier, dimensione 12.
  3. Sceneggiatura alla francese: in alto al centro le didascalie, in basso a destra i dialoghi.

Ma ora basta parlare degli aspetti tecnici! Passiamo dalla teoria alla pratica andando a illustrare (senza spoiler, ovviamente) tre episodi tratti da altrettante serie televisive che dimostrano quanto una buona sceneggiatura sia importante.
Le serie in questione sono diverse per genere, ma sono tutte e tre concluse (alcune da lungo tempo); ciò non toglie però che questi episodi siano rimasti negli annali, grazie soprattutto a una scrittura particolarmente eclatante- non a caso opera di tre geni dello screenwriting: Aaron Sorkin, Dan Fogelman e J.J. Abrams.

N.B.: Tutti i seguenti episodi sono a discrezione dell’autrice, che potrebbe scrivere intere dissertazioni su di essi (e sulle serie a cui appartengono) ma si tratterrà dal farlo per dignità.

West Wing, Due cattedrali – Episodio 22, Stagione 2 (1999-2006)

Premettendo che ogni singolo episodio delle prime quattro stagioni di questa serie è perfetto, se ne dovessi scegliere uno in particolare che spicchi per il livello di scrittura sarebbe sicuramente il finale della seconda stagione. Ideata e scritta (fino alla quarta stagione) da quel genio di Aaron Sorkin, la serie è ambientata tra lo Studio Ovale, gli uffici e i corridoi dell’ala ovest (la west wing, appunto) della Casa Bianca, e racconta le problematiche quotidiane, le decisioni pubbliche e private del Presidente e del suo staff.
Con un cast da far invidia ai blockbuster di Hollywood, Aaron Sorkin scrive un episodio geniale, che raggiunge il suo apice durante un monologo che il Presidente in carica (democratico e cattolico) scaglia contro Dio quando, a seguito di un improvviso lutto e alle prese con una serie di scelte che potrebbero cambiare il suo futuro, sente di non potersi più fidare del Dio in cui tanto crede.
Sorkin non risparmia colpi e, coadiuvato dalla fenomenale interpretazione di Martin Sheen, scrive un monologo pregno di rabbia e frustrazione, tanto originale (nella scelta, ad esempio, di chiudere il discorso con un’inveire in latino) quanto realistico, visto che chiunque abbia mai sofferto un lutto potrà rivedercisi. Il monologo inizia così: “You’re a son of a bitch, you know that?”.
Serve aggiungere altro?

  This is us, Il treno – Episodio 17, Stagione 06 (2016-2022)

Ambientato al capezzale di una donna chiave all’interno della narrazione, l’episodio si snoda su due binari: da un lato, la famiglia che cerca di farsi forza, dall’altro la donna in questione che affronta un viaggio tutto personale e molto particolare. Mentre, anziana, è bloccata a letto, una sua versione giovane viaggia a bordo di un treno immaginario sul quale, vagone dopo vagone, rivive i momenti salienti della sua vita, riflette su cosa è stato e su ciò che sarà, adesso che la sua vita volge al termine.
Non volendo fare nomi per non spoilerare una puntata che, personalmente, mi ha distrutto l’anima ma mi ha anche fatto tanto bene, l’unica cosa che posso dire è che la Hollywood Critics Association TV Awards ha riconosciuto a Dan Fogelman il premio per la miglior sceneggiatura di una serie drammatica.
Un episodio drammatico e pieno di sentimenti che lascia una sensazione a cui ancora non so dare un nome. Ciò che so per certo è che tra una lacrima e l’altra si assiste a un’ora di televisione che si avvicina alla perfezione.

-I spent my whole life worrying about them. Wondering what else I can do and now…
-There is nothing left to do, so you trust the process and you [enjoy your] drink.

Fringe, Un tulipano bianco – Episodio 18, Stagione 02 (2008-2013)

Una serie fantascientifica (per genere e scrittura) scritta da J.J. Abrams che si conferma uno di quegli sceneggiatori che potrebbe scrivere la lista della spesa e probabilmente vincerebbe un Emmy.
Si tratta di un episodio chiave, che risponde al primo grande interrogativo che la serie pone allo spettatore: il protagonista è davvero chi dice di essere? Paradossalmente però, l’episodio non rimane impresso per questo, ma per la delicatezza con cui gli autori trattano quelli che poi, si scoprirà, sono i temi portanti di questa serie: il rimorso, la genitorialità e il tema della dicotomia tra religione e scienza.
È un episodio in cui l’interpretazione di John Noble raggiunge livelli riproposti solo nel finale di serie (uno dei più belli di sempre, a mio modesto parere) e che, tra un mistero e l’altro, parla al cuore dello spettatore, risvegliando domande esistenziali, che poi non sono altro che il fil rouge dell’intera serie.

I read that dejà vu is fate’s way of telling you that you’re exactly where you’re supposed to be. That’s why you feel like you’ve been there before. You’re right in line with your own destiny.”

Da appassionata di serie quale sono, mi vengono in mente molti altri episodi (tratti da queste e altre serie) da poter aggiungere alla lista, ma non mi pare il caso di farsi prendere la mano.

Voi quali episodi aggiungereste a questa lista?

Il doppiaggio italiano: l’inizio

Il doppiaggio italiano: l'inizio

*cough cough* Allora… l’autrice vorrebbe mettere le mani avanti e annunciare che l’intento dell’articolo in questione vuole essere quello di raccontare gli inizi del doppiaggio italiano (immagino che il titolo fosse un indizio notevole, ma non si può mai essere troppo previdenti) e non quello di ammorbare con una lezione sulla storia del cinema. Con la speranza di essere riuscita a raggiungere l’obiettivo, diamo il via alle danze.

Come spesso accade, per poter parlare di un argomento, dobbiamo prima però fare un salto indietro nel tempo e fare un pit stop ai tempi del cinema muto: all’epoca, la comprensione del film era affidata alla gestualità e alla mimica degli attori e alle didascalie che comparivano tra una scena e l’altra per “dare voce” agli attori in scena.
Questi cartelli con poche e semplici righe di testo non sono altro che precursori di quelli che conosciamo come sottotitoli e, esattamente come nel sottotitolaggio moderno, potevano essere tradotti da una lingua all’altra in base al Paese in cui il film veniva distribuito.

Poi, all’inizio del XX secolo, il cinema viene rivoluzionato dall’arrivo del sonoro, un vero e proprio evento spartiacque nella storia della settima arte, che, come tutte le novità che sconvolgono, non viene inizialmente vista di buon’occhio; ecco perché molti Paesi iniziarono a imporre restrizioni ai film provenienti dall’estero. Per quanto riguarda l’Italia, il 1929 segna la prima messa al bando da parte del regime fascista di tutti i film non in italiano, una decisione presa allo scopo di tutelare gli interessi della cinematografia nazionale. Così, per correre ai ripari e garantire la distribuzione ovunque, le case di produzione internazionali (e in particolare americane) trovano due possibili soluzioni:

  • girare più versioni di una pellicola: usando lo stesso set, ma diversi cast, la pellicola viene girata più volte;
  • realizzare il doppiaggio del film: gli attori americani si auto-doppiano in lingua italiana. La prima casa a pensare a questa soluzione fu la Fox che, nel 1929, realizzò la pellicola “Maritati a Hollywood”, un film che purtroppo ci è arrivato incompleto; la prima pellicola completa doppiata risale invece a tre anni dopo, quando la Metro Goldwyn Meyer fa doppiare, sempre da attori italoamericani, il film “Carcere”.

Entrambe queste soluzioni non riscontrano però il favore del pubblico, eccezion fatta per il successo riportato dalle pellicole di Stanlio e Ollio,  che grazie alla comicità delle loro gag e all’accento italoamericano con il quale si auto-doppiano i protagonisti, scatenano l’ilarità nel pubblico italiano.

Oltretutto queste tecniche sono molte costose e, quando vengono messe al bando, le case di produzione passano definitivamente al doppiaggio: l’avanzamento della tecnologia, infatti, adesso permette di cambiare la colonna sonora senza dover rigirare tutto il film. Il doppiaggio viene dapprima affidato ad aziende interne alla stessa Hollywood, e poi in seguito a professionisti nel Paese in cui si intende distribuire il film; la casa di distribuzione Paramount decide quindi di aprire uno stabilimento di doppiaggio a Joinville, in Francia, nel quale doppiare film destinati alla distribuzione in Italia, ma anche in Germania, Francia, ecc. Questa decisione della casa americana viene inizialmente apprezzata anche nel Bel Paese, tant’è che il regime fascista accetta di mandare attori italiani (e in particolare teatrali) a doppiare.
La musica cambia però nel 1932 quando viene pubblicato un regio decreto che vieta la distribuzione di pellicole la cui sincronizzazione non sia avvenuta in territorio italiano; nasce così il primo stabilimento di doppiaggio presso la Cines-Pittaluga, considerata la migliore e più potente società cinematografica dell’inizio degli anni ’30. La direzione viene affidata all’esperto Mario Almirante, il quale sceglie attori teatrali dalla dizione pulita e tecnici con molta esperienza, tra i quali anche dialoghisti adattatori. Nel corso degli anni, poi, nascono ulteriori stabilimenti quali, tra gli altri, Fotovox e Fonoroma.

Il doppiaggio si rivela una scelta azzeccata, che riscontra il favore del pubblico, il quale essendo a maggioranza analfabeta, faticava (quando riusciva) a leggere le didascalie. Tuttavia, il primo stile di doppiaggio italiano è ben lontano da quello che adesso risuona nelle nostre case in quanto viene fatto “nel pieno rispetto della pronuncia romano-fiorentina [e con] l’adozione di un lessico decorosamente medio e largamente comprensibile”. Questa stasi della lingua del doppiaggio rimarrà fino, all’incirca, agli anni ’70, quando l’italiano doppiato si farà meno compassato e più aperto a sfumature e dialetti, adeguandosi così alla ricchezza e alla varietà del parlato del film originale, perché, citando Federico Fellini, uno dei più grandi del cinema nostrano, “il doppiaggio è come una seduta spiritica; i doppiatori sono dei medium che daranno un’identità a quelle ombre”.

Adattamento dialoghi e doppiaggio: croce e delizia del cinema!

Adattamento dialoghi e doppiaggio:
croce e delizia del cinema!

Come avrete avuto modo di notare dai nostri social (ci seguite, vero?), abbiamo dedicato questo mese alla voce, alla giornata mondiale che la celebra e -in senso più ampio- al doppiaggio; ed è proprio su questo settore che vogliamo tornare a concentrarci, dedicando l’articolo di aprile all’adattamento dialoghi. Tuttavia, piuttosto che tediarvi con un articolo lungo e forse troppo tecnico, abbiamo deciso di proporvi un assortimento di doppiaggi (e talvolta di brevi esempi da essi tratti) con i quali vi dimostreremo quanto il lavoro del dialoghista adattatore sia al contempo importante e difficile: al netto della scelta delle voci dei doppiatori, il successo o meno di un prodotto può dipendere anche quasi interamente dalle trovate creative del dialoghista che, quando si rivelano azzeccate, possono addirittura andare a migliorare il prodotto di partenza. 

A questo proposito, vi è mai capitato di guardare  Le Follie dell’Imperatore in lingua originale? Vi sarete presto accorti che in inglese il film raramente riesce a causare ilarità nello spettatore, mentre in italiano è un concentrato di risate; questo grazie al doppiaggio, oltre a un adattamento che non adatta mai veramente ma stravolge l’originale. (Nota personale: un grazie di cuore a chiunque abbia avuto la geniale idea di accostare a grandi voci come Adalberto Maria Merli quelle di attori come Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Anna Marchesini. Quando si dice “una scelta che paga”!)

A volte invece, purtroppo aggiungerei, la scelta delle voci viene operata pensando solo alla velocità di lavorazione e ai costi. E si vede… anzi si sente! È il caso del film L’altra metà, uscito su Netflix nel 2020, e diventato immediatamente virale per la bruttezza del doppiaggio italiano. Complice infatti la pandemia, Netflix decise di far doppiare il film in italiano a persone italo-americane che, evidentemente, aveva in quel momento a disposizione in loco ed ecco così spiegata la presenza di un musicista e di un registra tra i “doppiatori” della prima versione del film. Fortunatamente, facendo seguito alle lamentele degli spettatori italiani, il 14 maggio di quello stesso anno il film è stato ricaricato sulla piattaforma con un doppiaggio ad opera di doppiatori professionisti.

E se parliamo di voci e doppiaggi, come non citare un assoluto capolavoro del doppiaggio italiano a opera di Maldesi e De Leonardis, ovvero Gli Aristogatti? Questa pellicola Disney è un esempio di adattamento praticamente perfetto: dalla scelta di far parlare gli animali con diversi dialetti (i cani da guardia Napoleone e Lafayette parlano milanese, mentre il protagonista Romeo er mejo der Colosseo parla ovviamente romano) all’adattamento dei nomi. Sia chiaro, quest’ultimo aspetto non è una scelta operata dall’adattatore, ma era all’epoca una politica Disney: i cartoni animati andavano adattati il più possibile al Paese in cui poi sarebbero stati trasmessi. Così, per assicurarsi che funzionassero per il pubblico italiano, si è andati a operare un adattamento anche dei nomi, anche se soltanto per quanto concerne gli animali. Così, solo per citarne alcuni, i tre gattini protagonisti hanno cambiato nome da Marie, Toulose e Berlioz in Minou, Matisse e Bizet e il motivo è molto semplice: si è scelto di sostituire i riferimenti originali alla regina Maria Antonietta, al pittore Toulose-Lautrec e al compositore Hector Berlioz in quanto si è ritenuto che potessero essere troppo oscuri per il pubblico italiano, preferendogli riferimenti ritenuti molto più chiari. Nel caso invece delle oche così belle da sembrare cigni (semicit.) Abigail e Amelia, si è scelto di modificarne i nomi, sostituendoli con due nomi ideali -nell’immaginario collettivo- per due zitelle incallite: Adelina e Guendalina; anche il cognome delle due non è casuale: visto infatti che l’originale Gobble rimanda all’onomatopea tipica dell’animale che starnazza nell’aia (anche se, per la precisione, rimanda in particolare a un tacchino), in italiano lo si è andati a sostituire con l’onomatopea tipica di parla troppo: Blabla.

Qualche volta però non è sufficiente sostituire l’espressione originale con la sua traduzione italiana, seppur corretta, come ci dimostra l’esempio riportato qui sotto, tratto dal film Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, quarto capitolo della saga dedicata al celeberrimo archeologo. Quando il protagonista elimina un assalitore, lo studente interpretato da Shia LaBeouf, stupefatto, gli chiede, in inglese:

  • You’re a professor? 
  • Part-time.

Mentre in italiano chiede:

  • E tu saresti un professore?
  • Qualche volta.              

La traduzione è corretta? Sì. È anche di impatto? Non troppo.          
L’ironia di quel “part-time” pronunciato dal professore non riesce, infatti, a essere veicolato dalla traduzione “qualche volta” che, per quanto corretta, risulta -come dire?- scolastica. E se è vero che il film è ambientato nel 1957 e quindi mantenere il termine “part-time” sarebbe risultato anacronistico, è altresì vero che questa soluzione risulta fiacca. Al contrario, invece, la scelta traduttiva operata per la domanda dello studente lascia trasparire perfettamente il senso di stupore veicolato dalla scena; in questo caso, addirittura, la domanda funziona meglio in italiano che in inglese dove, tradotta letteralmente, lo studente chiede semplicemente: “Sei un professore?”

Come abbiamo visto dunque, il lavoro del dialoghista adattatore non è assolutamente semplice: è un costante gioco di equilibri tra creatività e fedeltà all’originale, attenzione alle immagini e adattamento alla cultura di arrivo. A volte ne escono dei capolavori indimenticabili, a volte (decisamente) no. Si potrebbe obiettare che non è sempre interamente colpa dell’adattatore, ma questa è un’altra storia…

I sopratitoli a teatro

I sopratitoli a teatro

Quando si parla di traduzione audiovisiva, si pensa istintivamente al doppiaggio dei film (settore in cui l’Italia eccelle) o ai sottotitoli interlinguistici e intralinguistici che ormai ogni piattaforma offre ai propri utenti.  Ciò che raramente invece avviene è che questa espressione venga associata a un teatro o a un anfiteatro, luoghi dunque adibiti alla messa in scena di opere teatrali o persino liriche. Per quanto questo specifico ambito esuli dalle conoscenze di chi scrive, nella giornata internazionale del teatro ci sembrava doveroso spendere qualche parola per raccontare un tipo di lavorazione tra le meno conosciute del settore, ma non per questo meno difficoltosa o meno degna di nota: la sopratitolazione teatrale, intesa come la trascrizione o l’adattamento in una lingua diversa da quella originale, di un testo cantato o recitato dal vivo, durante una rappresentazione teatrale e proiettato o trasmesso elettronicamente su uno o più schermi, il principale dei quali si trova in genere sopra il proscenio nel boccascena.

La sua origine          
La sua storia inizia in epoca recente, e in particolare comincia nel gennaio 1983, in Canada, quando il direttore artistico della Canadian Opera Company decide di proiettare sul proscenio le didascalie con la traduzione del libretto dell’“Elektra” di Strauss, rappresentata in lingua originale. L’esperimento si rivela un successo e, nonostante qualche oppositore, questa tecnica si diffonde velocemente prima in America e poi in Europa, dove arriva per la prima volta nel 1986 a Firenze.

La lavorazione
Diversamente da quanto avviene per i sottotitoli televisivi o cinematografici e a prescindere che si tratti di una lavorazione intralinguistica o interlinguistica, la creazione dei sopratitoli passa per tre fasi:

  • Traduzione (quasi) letterale;
  • Traduzione del libretto, che sarà disponibile a teatro nei giorni precedenti la messa in scena;
  • Traduzione dei sopratitoli: fase più complessa della lavorazione in quanto prevede la traduzione e l’adattamento dei sopratitoli di pari passo alle prove generali dell’opera. In questa fase in particolare si va a lavorare sullo snellimento del testo originale, andando, ad esempio, a privarlo di un’eccessiva aggettivazione per rendere più semplice e fluida la lettura. 

Obiettivo dei sopratitoli
La creazione dei sopratitoli è volta, così come quella dei sottotitoli, a semplificare la comprensione del testo cantato, rendendo così più fruibile lo spettacolo. Al netto, infatti, di un pubblico che generalmente si approccia all’opera conoscendo già trama e testo, risulta talvolta di difficile comprensione ciò che gli attori stanno recitando; ecco così spiegata, tra le altre cose, l’esistenza dei sopratitoli intralinguistici, che numerosi teatri in Italia adoperano anche per opere in italiano. Lo scopo ultimo è dunque quello di trasmettere al pubblico sia il contenuto del testo sia i sentimenti dei personaggi, cercando di andare a tagliare meno informazioni possibili, laddove non sia necessario per limitazioni tecniche.

I maggiori pro e contro della sopratitolazione
Uno dei pro di questo tipo di traduzione audiovisiva l’abbiamo appena citato ed è, evidentemente, il fatto che l’esistenza del sopratitolo aiuti la fruizione da parte del pubblico, così come – venendo a un secondo aspetto a favore – il fatto che la posizione degli schermi intorno al palcoscenico, siano essi posizionati sopra il proscenio o ai lati, favorisce l’accesso agli stessi da parte di tutti gli spettatori, ovunque essi si trovino seduti.

D’altro canto, però, proprio gli schermi sono al centro delle critiche da parte dei detrattori di questa tecnica. Lo schermo, secondo loro, presenta infatti due gravi difetti: da un lato, lo schermo al LED crea una luce che distrae, più o meno parzialmente, lo spettatore, mentre dall’altro la sua dimensione ristretta non permette la traduzione in più di una lingua; questo secondo aspetto risulta di particolare gravità in Paesi nei quali non vi sia una sola lingua nazionale (come in Belgio), dove si crea dunque una disparità di comprensione negli spettatori a seconda della lingua utilizzata.

Il ruolo del proiezionista
Per concludere veniamo al ruolo del proiezionista, che talvolta può persino coincidere con quello del traduttore. Il suo lavoro, il quale consiste nel proiettare manualmente le didascalie sugli schermi, nasconde un’insidia non di poco conto; come abbiamo visto, la traduzione dei sopratitoli avviene di pari passo con le prove generali dell’opera, ma per quante prove si possano fare, l’imprevedibilità della rappresentazione dal vivo rischia di creare dei problemi. Per questo viene richiesto al proiezionista, anche qualora non sia il traduttore, di conoscere non soltanto bene l’opera ma anche la lingua in cui l’opera è rappresentata: questo perché deve essere in grado di distinguere precisamente il momento nel quale far entrare/cambiare/far uscire la didascalia a schermo.

E voi avete mai assistito a un’opera che presentasse i sopratitoli?
Da che parte state, pro o contro?

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